alba a pierino

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venerdì 1 marzo 2013

la cascina cremonese



Oggi ho avuto l'occasione per un altro piccolo, grande, assaggio, di una realtà che tanto mi appassiona.
Visitando un impianto in cui si produce energia attraverso il biogas prodotto dalla digestione anaerobica dei soli reflui di un allevamento di 280 frisone adulte da latte, ho potuto visitare, e fotografare, una vecchia cascina cremonese.


Tra gli edifici creati in Italia nei secoli passati per le esigenze dell’agricoltura, la cascina a corte chiusa, rappresenta certamente una delle tipologie più importanti e suggestive. E qui, nel cremonese, dove oggi mi trovavo, è particolarmente tipica.
Io, che ho scoperto la cascina soprattutto attraverso il racconto che ne ha fatto di essa Bernardo Bertolucci nel suo capolavoro “Novecento”, ne sono affascinato. Col tempo, ho poi cercato di raccogliere esperienze dirette o verbali, per conoscerne e capirne i meccanismi della loro vecchia funzione produttiva e sociale. Meccanismi che costituivano una struttura di rapporti spesso crudeli, vessatori, tanto per gli animali che per gli uomini.
Mi ricordo di un trattato di Carlo Cattaneo dal titolo: "Condizioni sociali e morali della bassa lombarda", indicatomi dal mio professore di Agronomia e trovato tra gli scaffali della Biblioteca Marucelliana di Firenze.



Le cascine sono un complesso edilizio realizzato con regole costruttive, che erano il frutto di esperienze plurisecolari, che indicavano la migliore disposizione delle case, delle stalle e dei porticati sia rispetto ai punti cardinali che rispetto ai venti dominanti.
Disposizioni che si fondevano con le necessità operative delle attività che si svolgevano all’interno della cascina, facendo dell’organismo cascina un impareggiabile complesso edilizio plurifunzionale, razionale ed integrato, gerarchicamente strutturato, caratterizzandosi come una compiuta ed organica espressione, di un preciso modello economico.
Così, nel tempo, ho scoperto che certi manufatti, i materiali di cui sono composti, le ragioni specifiche delle loro forme, erano in diretta relazione con le modalità del loro corretto impiego.


La struttura dell’economia agricola toscana era caratterizzata da “fattorie”, spesso di diverse centinaia di ettari, gestite direttamente dal proprietario, generalmente nobile, che conduceva le proprie proprietà attraverso il fattore, una sorta dell’odierno amministratore delegato, attraverso una parcellare suddivisione in poderi disseminati, di 5-10 ettari ciascuno, ognuno dotati di una casa colonica per ospitare generalmente una sola, seppur numerosa, famiglia di contadini, che conducevano i terreni attraverso un contratto di mezzadria, e prestavano anche servizi in fattoria, dove, non sempre, si potevano trovare dei salariati.


Erano poche le fattorie lombarde, soprattutto nella bassa pianura irrigua, a superare i 100 ettari. Ma nessuna di esse avevano coloniche sparse, perché tutti i fabbricati necessari alla conduzione del fondo erano raccolti nella cascina.
La struttura della cascina ha quindi dimensioni notevoli ed un tempo ospitava varie famiglie di contadini, normalmente 10-15, anche se spesso raggiungevano e supervano le 20 famiglie. Il numero dei nuclei familiari variava a seconda della grandezza dell'azienda agricola legata alla cascina. Qui nel cremonese la maggior parte delle cascine superava i 100 abitanti.



La cascina raramente era gestita dal proprietario, in quanto dava in affitto l'azienda ad un "Fittavolo" che l'amministrava come se fosse il padrone per tutto il periodo del contratto. Il fittavolo o il proprietario della cascina, spesso non viveva nella fattoria. Ma si teneva a disposizione, quale sua abitazione, l'edificio più grande della cascina.


A gestire l’ordinaria amministrazione delle attività delle cascine, era il fattore, che rispondeva solo ed unicamente al padrone, e col quale aveva un rapporto di fiducia. I due si tenevano in contatto spesso. Il fattore, che riceveva il doppio del compenso rispetto ai suoi sottoposti, organizzava il lavoro e controllava l'esecuzione dei lavori su ordine del Fittavolo o del padrone.



La maggior parte dei contadini era salariato fisso o salariato avventizio. Pochi erano coloro sotto contratto di mezzadria. Il lavoro nelle cascine era rigorosamente suddiviso tra i vari contadini, creando delle vere e proprie categorie di specializzati.
Le figure principali in cui erano suddivisi i contadini che abitavano in Cascina erano le seguenti:
Campari: Si occupavano della manutenzione delle roggia e dei canali d'irrigazione.
Bergamini: Si occupavano del bestiame, in primo luogo della mungitura.
Casari: Preparavano il formaggio.
Contadini: S'occupavano di vari lavori, ma in primo luogo del taglio del fieno per il bestiame.
Bifolchi o Cavallanti: Avevano lo stesso ruolo, ossia dell'aratura, erpicatura e dissodamento dei campi tramite l'ausilio d'animali da lavoro.
Essi si preoccupavano anche della cura degli animali da lavoro a loro affidati.
Oltre a queste categorie c'erano garzoni di vario genere: famigli, manzolai, stallieri, fatutto, mietitori ecc. Nelle cascine più grandi c'erano anche artigiani di vario genere, quali il maniscalco, il sellaio, il falegname, il muratore, il fabbro ecc.
Tra i salariati stagionali vi erano i mietitori, i tagliariso, le mondine ecc.





Girando per la pianura cremonese mi accorgo però che buona parte di queste strutture sta scomparendo, cancellate travolta dall’abbandono, dall’incuria o dai rinnovamenti. Segnando l’inesorabile e progressiva decadenza della cascina tradizionale.
Molte delle antiche corti, prima ancora che scomparire, vengono svuotate in buona parte delle originali funzioni, spesso perché addirittura emarginate, nella loro interezza, dalle esigenze della moderna economia agricola che a portato alla costruzione di nuove stalle al di fuori del perimetro delle vecchie corti, riducendole e semplici ricovero di attrezzi.
Delle decine e decine di contadini che meno di un secolo fa necessitavano per la conduzione del fondo e l’allevamento di qualche decina di capi, oggi pochi agricoltori conducono il fondo ed allevano centinaia di capi.




Leggo sul mio web-in-tasca, che recentemente l'Amministrazione Provinciale ha presentato in due volumi il primo tentativo di censimento delle cascine cremonesi. Un gruppo di giovani ricercatori coordinati dall'Assessorato di Programmazione Territoriale ha contato ben 4277 cascine, delle quali 3061 in attività, 3311 abitate, 799 slegate dall'attività, 46 vincolate, 407 in abbandono.
Commentando questa ricerca, il vice presidente della Provincia e assessore alla partita Giovanni Bondi scrive: "... lo studio sui complessi rurali non vuol essere un atto di "recupero nostalgico"... ma è riconducibile ad un preciso obiettivo: rivitalizzare il patrimonio culturale delle nostre comunità, recuperare anche con nuovi interventi di economia legislativa i plessi di pregio architettonico, creando nel contempo progetti che integrino turismo, arte e tradizioni locali".


Lo trovo un impegno lodevole e condivisibilissimo. 
Ma guardandomi attorno mi rendo conto che le cascine che sono state oggetto di recupero, appaiono feticci kitsch di una "civiltà contadina" che, se fosse sopravvissuta, non potrebbe mai riconoscersi in queste trasformazioni. Appartenendo ad un passato memorabile di splendore produttivo, di intelligenza agricola, di arroganza padronale, di tragiche disparità economiche, di enormi sofferenze e di inaudita povertà.


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